Le Origini
Immaginiamo di trovarci nel parco della villa, esattamente davanti all’ingresso principale dell’ampia e luminosa facciata: pensiamo di fare un salto indietro nel tempo di sei secoli, sino alle origini del complesso. Avremmo la sorpresa di non vedere più né barchessa, né corpo padronale, né loggia.
Gli unici edifici che potremmo scorgere, sarebbero dei modesti casolari di campagna di ridotte dimensioni, utili più che altro al ricovero degli attrezzi e alle necessità del lavoro agrario, non certo adeguati al soggiorno di una nobile famiglia di città.
Naturalmente anche il parco con i suoi viali alberati, i percorsi di ghiaia, l’ingresso monumentale e i muri di recinzione non ci sarebbero: se decidessimo di uscire passeremmo attraverso un semplice cortile per trovarci subito al limitare dei campi coltivati, circondati da un paesaggio ben diverso da quello odierno fatto di campi ordinati ammirabili a perdita d’occhio, fiancheggiati da fossi e corsi d’acqua e punteggiato di secolari alberi monumentali. Osservando la campagna circostante potremmo notare ampie aree di zone acquitrinose e foreste, al tempo ancora estese anche in pianura.
Quando nel 1436 con atto di permuta i Loschi, una delle più antiche e potenti famiglie nobili presenti a Vicenza sin dal XII secolo, conti dal 1426 per volontà dell’Imperatore Sigismondo, entrarono in possesso di un’ampia porzione di campagna ad ovest di Vicenza prima di proprietà dei monaci di San Felice, buona parte del territorio era ancora incolto, paludoso o ricoperto di boschi.
A dire il vero qualche lavoro di bonifica era già stato fatto negli anni precedenti l’acquisto proprio per iniziativa di Antonio Nicolò che, in qualità di affittuario, ebbe il merito di intuire l’enorme potenzialità di quelle campagne. Nei decenni seguenti la famiglia si concentrò sui nuovi possedimenti, investendovi risorse per proseguire e completare lo scavo dei canali, il prosciugamento e il disboscamento, anticipando con lungimiranza di oltre mezzo secolo l’attenzione per la “santa agricoltura” che caratterizzò le famiglie nobili venete solo a partire dal Cinquecento.
Lunghi anni di pace garantirono tranquillità e stabilità, interrotti solamente dalla guerra della Lega di Cambrai, che interessò direttamente proprio anche le proprietà di Biron dei Loschi. Tra il 6 e 7 ottobre del 1513 infatti, le campagne della tenuta Loschi furono teatro degli avvenimenti che videro gli eserciti dell’imperatore Massimiliano I e della Repubblica Serenissima dapprima accamparsi e schierarsi e poi muoversi a sorpresa, per spostarsi in un inseguimento culminato nel finale con la battaglia della Motta, disastrosa per i veneziani.
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Seicento e Settecento
Grazie agli sforzi profusi, alle capacità tecniche e organizzative, nell’arco di due secoli le terre dei Loschi vennero rese fertili e furono così ben coltivate da diventare fonte di eccezionale ricchezza per la famiglia. Di pari passo con la crescita dell’attività imprenditoriale, crebbe e si ampliò quasi senza sosta anche il complesso residenziale.
Se osserviamo la mappa di Giovanni Briati del 1636, la più antica testimonianza grafica delle proprietà Loschi del Biron, oggi conservata nella civica Biblioteca Bertoliana di Vicenza, l’ampiezza dell’insieme, il numero e la varietà di edifici del complesso danno prova dell’importanza raggiunta da quella che era diventata una vasta e florida azienda agricola. Si vede una grande corte la cui larghezza superava i centoventi metri, racchiusa ad est e ovest da due lunghe barchesse, a sud da un muro di cinta e sul lato nord verso il colle di San Giorgio da una serie di edifici di varie altezze affiancati uno all’altro. La parte padronale non emerge in modo particolare rispetto alle altre, tanto che si fa fatica a distinguerla. L’insieme aveva evidentemente la sua ragion d’essere nella funzionalità e nelle esigenze concrete e pratiche dell’attività economica agraria della famiglia ed ogni sua parte era stata aggiunta progressivamente nel tempo secondo le diverse necessità. Il desiderio di celebrazione e di manifestazione di prestigio sociale che a partire dal Cinquecento spinse i nobili veneti a rivolgersi a pittori ed architetti, primo fra tutti il Palladio, sembra non interessare i Loschi nello sviluppo della loro proprietà di campagna. Nel caso del complesso di Biron sono stati piuttosto gli elementi del territorio in cui è inserito a definirne orientamento e conformazione, ovvero a nord il declivio di colle San Giorgio a cui si appoggia seguendone l’andamento, e la strada pubblica ad est alla quale si affianca e a sud la campagna verso la quale si rivolge e si apre.
Nella mappa del Briati si vede anche già la cappella, collocata alle spalle dell’edificio padronale addossata a colle San Giorgio: rispetto al momento di stesura del documento era stata infatti costruita da pochi anni, per volontà di Elisabetta Poiana, moglie del conte Fabrizio, tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, per sostituire quella più antica ma non più agibile che si trovava sulla sommità del colle.
Si deve al figlio di Elisabetta e Fabrizio, Alfonso Loschi, l’edificazione nel 1665 dello straordinario ambiente della grotta delle conchiglie, spazio voltato dalle superfici completamente decorate da conchiglie e specchiature affrescate, nel quale i nobili Loschi accoglievano e stupivano i loro ospiti.
Nella seconda metà del Seicento, Fabrizio erede di Alfonso fu promotore di una intensa attività di restauri e ampliamenti, con interventi che interessarono sia gli annessi rustici, con anche la costruzione di una nuova stalla e una casara sul lato orientale, sia il corpo padronale centrale dove i vari fabbricati fino ad allora discontinui tra di loro tra loro vennero ampliati e allineati dando all’insieme una certa omogenea continuità. Per la prima volta ci fu la volontà di dar mostra del prestigio del casato attraverso la nuova costruzione, al posto di un vecchio fienile demolito, di un edificio elegante e signorile, una loggia monumentale impostata su sette ampie arcate bugnate e composta da imponenti colonne di ordine tuscanico, per la quale nel 1692 venne dato incarico a Carlo Borella, uno degli architetti più noti di Vicenza al tempo.
Nel 1729 avvenne un fatto eccezionale per la famiglia Loschi: finalmente dopo lunghi anni di attesa, il casato entrò a far parte del patriziato della Serenissima Repubblica, con l’iscrizione nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana concessa ai cugini Alfonso e Nicolò. Nel corso dei secoli effettivamente vari membri della famiglia avevano portato lustro al casato, sia per meriti letterari, sia per le imprese militari. L’umanista e diplomatico Antonio, vissuto tra il XIV e XV secolo, oltre ad essere stato scelto quale segretario da ben tre papi e tenuto in grande considerazione dai contemporanei, fu in rapporti di amicizia con altri umanisti quali Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Guarino Guarini e Coluccio Salutati. In campo militare più di un Loschi si distinse per le battaglie combattute al servizio dei re di Francia, in particolare un altro Nicolò, che fu anche amico personale di Lodovico Pico della Mirandola, nel 1554 venne nominato cavaliere come segno di gratitudine per il servizio prestato e ottenne dal re Enrico II il diritto di portare i tre gigli d’oro di Francia su sfondo azzurro sullo stemma, che andarono così ad aggiungersi all’aquila imperiale e ai tre gigli dello stemma originario.
Nicolò Loschi in occasione del prestigioso riconoscimento ottenuto dalla Repubblica di Venezia, ritenne necessario adeguare la struttura e l’immagine della dimora di Biron al nuovo status sociale della famiglia. Egli ebbe la fortuna di poter disporre di una rilevante disponibilità economica ricevuta in eredità.
Da uomo colto e impegnato nella vita civile della città di Vicenza qual era, il conte Nicolò decise di impiegarla per realizzare un articolato ed erudito programma edilizio e decorativo. Interpellò l’architetto Muttoni con la richiesta di riprogettare l’assetto sia degli edifici sia della corte del complesso.
L’architetto presentò un disegno di impostazione monumentale grandiosa, che prevedeva un nuovo vastissimo parco all’italiana con frutteti e peschiere antistante il nuovo palazzo signorile e una scenografica scalinata per l’accesso al piano nobile. Ma questo progetto non venne accolto. Sottoposto a modifiche,subì una profonda revisione che ne alterò completamente l’impianto. Lo scalone venne portato all’interno, con un primo pianerottolo dal quale attraverso un portone si poteva nuovamente uscire per accedere ad una scalinata e salire sul colle sino ad un ampio giardino sul retro, oppure con una doppia rampa salire fino al piano nobile. Questa seconda idea incontrò il favore del committente e fu quindi realizzata, dando origine all’assetto che oggi vediamo. La parte signorile, dalla facciata simile a quella di un palazzo cittadino, estesa nei volumi in profondità verso nord e separata dagli annessi rustici da una nuova muratura continua di divisione tra la corte nobile e il cortile rurale, si impose decisamente come elemento dominante dell’intero complesso e divenne riferimento centrale di un assetto in qualche modo ordinato secondo uno schema simmetrico.
La proposta muttoniana riguardante il parco rimase tutta sulla carta, il giardino con belvedere del retro non fu mai realizzato, mentre il parco antistante venne completato qualche anno più tardi dall’architetto Giuseppe Marchi, come mostra un disegno oggi conservato in villa.
Nicolò Loschi ebbe il grande merito di intuire il talento del giovane Giambattista Tiepolo in quegli anni pittore emergente che aveva cominciato a farsi conoscere con interventi di rilievo oltre che a Venezia sua città natale, anche a Udine nell’arcivescovado, a Milano e Bergamo, e di incaricarlo per l’esecuzione della decorazione dello scalone e della nuova sala al piano nobile. In una lettera scritta nel novembre 1734 all’amico Ludovico Feronati, il Tiepolo dichiara di essere stato impegnato nella campagna del Biron per tre mesi nell’estate di quell’anno per una committenza ricevuta già da qualche anno, molto probabilmente proprio nel 1729.
Architetto e pittore integrano secondo uno studiato equilibrio la loro opera dando origine ad un insieme di straordinaria armonia in cui trovava perfetta realizzazione il desiderio di celebrazione di sé e del casato del committente. Il ciclo pittorico, incentrato sul tema delle virtù rappresentate mediante la cadenzata proposizione di maestose figure allegoriche, comunica con forza ed efficacia i valori e i meriti che la famiglia dichiarava di possedere e soprattutto desiderava fossero a tutti noti. Con il colto e articolato programma di Nicolò, il complesso assunse il suo assetto pressoché definitivo. Gli interventi che si aggiunsero successivamente furono puntuali e andarono ad integrare completandolo un impianto consolidato e riconosciuto.
Sono attribuiti ad Ottone Calderari, che sappiamo incaricato dai Loschi per il progetto del palazzo cittadino di famiglia in Corso Palladio, i due padiglioni classicheggianti che, uno di fronte all’altro uno ad est e uno ad ovest, si pongono quasi come elemento di collegamento e mediazione tra il giardino e il complesso edilizio.
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Dall’Ottocento ad oggi
Nel corso del XIX il protagonista dell’attività edilizia e decorativa delle proprietà dei Loschi in Biron fu l’architetto Antonio Caregaro Negrin. Il legame con Luigi Loschi e sua moglie Drusilla dal Verme fu probabilmente favorito dalla condivisione dei sentimenti patriottici risorgimentali e dalla comune convinta partecipazione ai moti contro gli Austriaci.
Venuto a mancare nel 1848 Luigi Loschi, con il quale la casata si estinse, il complesso di Biron andò in eredità a Drusilla, la quale si fece animatrice di un intenso programma di interventi per il quale volle al suo fianco proprio il Caregaro Negrin. Suo è il progetto per l’ampliamento e la nuova decorazione della cappella di San Francesco, rinnovata secondo un vivace stile neobizantino, con chiaro e patriottico riferimento a San Marco di Venezia. Probabilmente fu grazie a lui che ci fu il coinvolgimento di uno dei più importanti architetti di giardini del tempo, il milanese Balzaretti, del quale l’Antonio vicentino era stato allievo, per la riprogettazione del parco secondo il nuovo gusto romantico all’inglese. La tenuta nella sua interezza fu oggetto di interventi di riqualificazione sia edilizia, con la costruzione di nuovi edifici colonici, sia agraria con l’applicazione di innovative tecniche di coltivazione, allo studio delle quali la contessa stessa era dedita con successo e riconoscimenti in ambito scientifico accademico.
Con la scomparsa di Drusilla, l’intera eredità passò al nipote Camillo Zileri, al cui figlio, Alessandro, fu trasferita la proprietà di Biron.
Alessandro Zileri, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, fu grande viaggiatore. Già negli anni della giovinezza, tra il 1887 e il 1889, compì un lungo viaggio attorno al mondo a fianco di Enrico II di Borbone principe di Parma, quale suo segretario personale ed amico, che lo portò a soggiornare per alcuni mesi in Oriente, soprattutto in Giappone. Il diario scritto dallo Zileri in quei mesi costituisce una fondamentale fonte di informazioni per la ricostruzione delle vicende che portarono alla costituzione dell’eccezionale corpus di oltre trentamila pezzi che, originariamente inviati e raccolti in Italia come acquisti personali della coppia ducale, andarono poi a formare quella che oggi è la collezione del museo di arte orientale di Venezia.
Delle iscrizioni collocate al di sotto delle finestre all’ultimo piano nella facciata laterale dell’edificio padronale ricordano un intervento edilizio voluto da lui nei primi anni del Novecento per ampliare il lato Nord Ovest, in particolare con l’aggiunta di una veranda sul retro verso il colle.
Nel corso del Novecento, in occasione dei due conflitti mondiali il complesso di Biron rimase fortunatamente illeso.
Durante la prima guerra mondiale la villa ospitò il quartier generale della Croce Rossa e vide per questo la visita della Regina Margherita. Nella seconda guerra mondiale invece, dal 1943 al 1945 gli edifici furono occupati e divennero la sede di un comando della Todt.
Gli occupanti ebbero però sempre rispetto del luogo e in particolare del salone d’onore con gli affreschi del Tiepolo, che infatti non risentirono minimamente di queste vicende storiche.
La Villa rimase in possesso dei conti Zileri fino al 1974, quando con un atto di compravendita passò alla società Montecastello SpA fino al 2018, anno in cui diventò di proprietà della Società Cirmolo Srl.
Nei decenni successivi, gli edifici del complesso furono oggetto di sistematici interventi di restauro, finalizzati alla conservazione e alla riqualificazione per un uso contemporaneo degli ambienti. Il corpo padronale e gli annessi rustici sono oggi destinati ad uso direzionale e residenziale.
Dal 2012 al 2013, la Montecastello ha promosso una campagna di restauro del salone d’onore, che ha interessato l’intero apparato decorativo con la sistematica pulizia delle pareti in marmorino e della decorazione a stucco e con un intervento sostanzialmente conservativo sugli affreschi del Tiepolo.
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Il salone d’onore e gli affreschi di Giambattista Tiepolo
Quando nel 1729 il conte Nicolò Loschi ottenne la prestigiosa iscrizione nel Libro d’Oro della nobiltà veneziana, si adoperò immediatamente per il rinnovamento della tenuta di famiglia di Biron.
Per secoli, sin dall’acquisto delle campagne ad Ovest di Vicenza da parte del suo avo Antonio Nicolò, la corte e gli edifici che vi si allineavano attorno non erano rimasti altro che la sede della fiorente azienda agricola. Un complesso molto grande e articolato, certo, ma decisamente troppo rustico e inadatto alla vita sociale e all’immagine di un gentiluomo del suo rango. Facevano eccezione solamente la grotta delle conchiglie, fatta costruire alla metà del Seicento, che però era ormai fuori moda e decisamente troppo piccola per accogliere i suoi ospiti, e l’imponente loggiato edificato dallo zio Fabrizio nemmeno cinquant’anni prima, di sicuro impatto scenografico ma che era stato un intervento puntuale e non del tutto armonicamente inserito nel resto degli edifici. Le sue idee portavano in tutt’altra direzione: voleva rendere la residenza di campagna all’altezza del prestigio del nuovo status sociale, suo e di tutto il suo casato, questo avrebbe comportato una trasformazione radicale, sia della parte padronale sia dell’area esterna, che finalmente avrebbe ospitato giardini di svago e di rappresentanza e non solo aia ed orti.
Per dare forma al suo progetto, Nicolò decise di rivolgersi ad uno degli architetti più in voga tra le famiglie nobili a Vicenza in quegli anni: Francesco Muttoni. L’architetto interpretò con entusiasmo le richieste di autocelebrazione del committente e presentò una proposta grandiosa nelle dimensioni, con un vastissimo giardino all’italiana antistante la villa, con enormi vasche e peschiere, che avrebbe potuto competere non solo con le residenze degli altri nobili della Repubblica veneziana ma persino con le corti dei sovrani d’Europa, e stravolgente nell’impianto edilizio, dominato sostituire con dominata da una scenografica scalinata esterna di accesso al salone nobile, importante ambiente profondo quanto l’intero edificio. Un disegno, firmato e databile al 1729, ci mostra nei dettagli la soluzione ideata in questa prima fase. Ma evidentemente era troppo, eccessivamente ambiziosa persino per il nobile Nicolò, che comunque apparteneva alla famiglia Loschi, intelligenti e oculati imprenditori da secoli e che non poteva non aver considerato l’enorme dispendio a soli fini estetici di quella preziosissima risorsa che anche al tempo era l’acqua, e ovviamente l’onerosità dell’opera nel suo insieme. O almeno così si può supporre, visto che ad oggi non sono stati reperiti altri documenti al riguardo, ad eccezione di un altro disegno attribuito a Muttoni, in cui si può leggere la nuova soluzione offerta al committente, con la scalinata portata all’interno e l’idea delle tre ampie arcate quale diaframma di collegamento con il salone nobile, ovvero l’impianto con cui si presenta oggi l’edificio e che dunque trovò favore presso il padrone di casa.
Per la realizzazione del ciclo decorativo Nicolò Loschi si rivolse a Giambattista Tiepolo. Possiamo ricavare importanti informazioni sull’incarico di Biron direttamente dalle parole di Tiepolo stesso. Nel novembre del 1734, infatti, scrisse una lettera all’amico Lodovico Ferronati, ancora oggi conservata nella biblioteca del museo di Bergamo, nella quale così motiva il suo ritardo nel rispondere alla richiesta di una nuova committenza:
[…] e se non fossi stato mesi tre in Vicenza per un forte impegno, che da molti anni avevo che per destrigarmi ò dipinto si può dire giorno e notte senza respiro […].
Tiepolo ci conferma il 1734 quale data di esecuzione, dichiarando di essere stato occupato in un lavoro impegnativo per i tre mesi dell’estate 1734, lo stesso anno che compare nell’iscrizione dedicatoria apposta nella parete sud del salone nobile. La precisazione riguardante il forte impegno, che da molti anni avevo ci lascia supporre che il primo contatto tra committente e artista fosse però già avvenuto alcuni anni prima e cioè probabilmente proprio nel 1729, in contemporanea con quello con l’architetto. Con quel destrigarmi il pittore ci rivela senza volerlo che verosimilmente i rapporti con il committente non furono del tutto facili. Come confermano le vicende della pianificazione spaziale e architettonica dell’ambiente, l’impostazione generale di tutto il progetto e quindi anche la definizione dei contenuti del ciclo decorativo avevano avuto un lungo periodo di elaborazione con cambi di opinione e nuove indicazioni da parte del committente. A questo tempo prolungato si oppone quello fulmineo dell’esecuzione impiegato da Tiepolo, dovuto anche all’impazienza sia del conte Nicolò sia del pittore che, per motivi diversi, desideravano portare a termine il lavoro il più in fretta possibile (ò dipinto si può dire giorno e notte senza respiro).
La rapidità con cui furono eseguiti gli affreschi, leggibile nelle veloci e precise pennellate, fu possibile grazie alla maestria del pittore che a quel tempo aveva ormai acquisito l’abilità tecnica e la piena padronanza dei mezzi espressivi che lo avrebbero contraddistinto poi per tutta la sua lunga carriera. Se nel 1729, quando venne scelto dal Loschi, Tiepolo era ancora un giovane pittore, per quanto talento emergente, che già si era distinto dando prova di sé anche con incarichi importanti come ad esempio quello dell’arcivescovado di Udine e per il nobile veneziano Dolfin e la cappella Colleoni nel duomo di Bergamo, al tempo dell’esecuzione della villa di Biron era ormai pienamente entrato nella maturità artistica. Il ciclo di Biron presenta la felice situazione quindi di essere stato eseguito dal maestro nel suo pieno vigore artistico, ma in un’epoca in cui non aveva ancora a fianco né i due figli, Giandomenico e Lorenzo, né la nutrita schiera di aiuti di bottega che lo avrebbero poi sempre accompagnato nella sua carriera. Quindi si può dire che ogni pennellata è di mano di Giambattista Tiepolo.
Gli affreschi sono giunti sino a noi in uno stato di conservazione complessivamente buono grazie in primo luogo all’alta qualità dei materiali usati, in secondo certamente per merito dell’attenzione e cura che sempre vi hanno posto nel corso del tempo i padroni di casa e non ultimo anche per il fatto che il salone come tutta la villa nel suo insieme ha attraversato indenne e senza traumi le diverse vicende storiche, anche quelle più rischiose come le due guerre mondiali. Per questa particolare concomitanza di circostanze, gli affreschi di villa Zileri sono considerati uno dei testi migliori su cui poter studiare la tecnica pittorica di Tiepolo.
Il salone d’onore era il luogo in cui venivano ricevuti gli ospiti, quello in cui si tenevano feste e ricevimenti nei quali la famiglia dava pubblica mostra di sé. Per questo ambiente, Nicolò Loschi, uomo a cui anche i contemporanei riconoscevano una vasta cultura umanistica, impegnato nella vita civile con varie cariche pubbliche come si addiceva ad un gentiluomo del suo rango, elaborò un percorso iconografico incentrato sulle virtù che lui e la sua casata vantavano di possedere e che venivano presentate come esempio da seguire.
A Tiepolo venne chiesto di dar forma e colore agli ideali del committente, dipingendo entro precisi riquadri incorniciati da stucco, secondo un impianto decorativo complessivo della sala deciso dall’architetto Muttoni, il più anziano dei due artisti al lavoro in Biron. La soluzione ideata dalla feconda creatività di Tiepolo fu di rappresentare le astratte virtù attraverso le loro personificazioni allegoriche in dialogo tra loro. Salita la prima rampa dello scalone, sostando nel pianerottolo, a destra e sinistra due finte statue dipinte a monocromo, Merito e Nobiltà, accolgono il visitatore e indicano già la chiave di lettura dell’intero ciclo. Alle pareti della scala e del salone ogni affresco è dedicato a maestose figure dalle pose solenni ed enfatiche, dominanti lo spazio e collocate quasi come fossero personaggi in una scena di teatro. Ecco allora che possiamo ammirare per esempio nello scalone, l’Innocenza e la Vigilanza, contrapposte rispettivamente all’Inganno e al Sonno, o ancora nel salone la Liberalità dispensatrice di doni e la Fedeltà coniugale, sino ad arrivare nel soffitto della sala nobile, al Trionfo della Gloria annunciato dalla Fama tra le quattro Virtù Cardinali dove Tiepolo mostra di padroneggiare la complessità compositiva di visioni aree dove numerose figure ritratte in posizioni dallo scorcio ardito si muovono in ariosi spazi inondati di luce. Con il sorriso si può notare che in una tanto sfolgorante sfilata di virtù paradossalmente trova posto anche un affresco dedicato alla Modestia, che con umile atteggiamento si preoccupa di allontanare una altezzosa e provocante Superbia!
Le figure e le scenografie di Tiepolo si inseriscono armoniosamente nelle architetture e negli spazi ideati da Francesco Muttoni, in un luminoso insieme che colpisce e coinvolge il visitatore che progressivamente è portato ad ammirarle e leggerne e farne propri i contenuti, cogliendo così in pieno quelle che erano state la richiesta e le aspettative del conte Nicolò.
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gli affreschi
La Storia del Parco di Villa Zileri
Villa Zileri conserva intatto ancora oggi il parco storico che circonda gli edifici padronali e gli annessi rustici ed ha la fortuna di trovarsi al centro di una vasta area di campagna pressoché priva di significativi elementi di recenti insediamenti abitativi o industriali, in un insieme di grande valenza storica e ambientale.
Si presenta così come un complesso monumentale che mantiene intatta e leggibile la stretta relazione esistente tra l’edificato e il contesto in cui questo è inserito e parte della sua stessa identità.
Si può cominciare a parlare di parco da quando i Loschi sentirono l’esigenza di dare alla loro dimora di campagna la funzione di veicolo di promozione dell’immagine sociale della famiglia, ovvero dai primi decenni del Settecento con il conte Nicolò. A quel tempo le proprietà dei Loschi si estendevano su una vasta area che andava ad est sin quasi alle porte della città di Vicenza, ad ovest fino ai piedi del colle di Monteviale, a sud toccava la zona di Ponte Alto e a nord si spingeva fino a quella delle Maddalene seguendo sostanzialmente il confine attuale tra i paesi di Monteviale e Costabissara.
Sino agli inizi del XVII secolo, come confermano anche le varie mappe storiche, coerentemente con la natura esclusivamente produttiva della proprietà di Biron, oltre alla corte rurale si apriva immediatamente il paesaggio agrario dei campi coltivati. Nel progetto presentato dall’architetto Muttoni presumibilmente nel 1729, invece le nuove proposte riguardanti gli edifici e quelle per l’area antistante e retrostante la villa hanno pari attenzione. Evidentemente il committente aveva sentito l’esigenza di colmare quella che per lui era una lacuna della proprietà di famiglia, trovando una entusiasta risposta da parte dell’architetto il quale dà grande spazio, anche fisicamente, al parco di rappresentanza, considerato elemento fondamentale attraverso il quale veicolare significati e messaggi. Le enormi aree a frutteto, le vaste aiuole a giardino all’italiana e poi le gigantesche peschiere sarebbero state una più che eloquente introduzione per ogni visitatore in arrivo, ancora prima di entrare nell’edificio padronale della villa. Nel retro, su un pianoro ricavato sul colle San Giorgio, un belvedere con giardino all’italiana circondato da mura avrebbe continuato all’esterno l’ambiente del salone nobile.
Queste grandiose proposte del Muttoni non vennero accolte per la gran parte, sia per l’edificio sia per il parco. Per quanto riguarda il giardino, pochi anni più tardi in base ad un progetto dell’architetto Giuseppe Marchi datato 1736, si realizzò una soluzione più semplice e pragmatica, costituita essenzialmente da grandi aiuole di forma quadrata separate da vialetti e un’unica peschiera rettangolare.
Alla metà dell’Ottocento, con il mutare della sensibilità culturale e degli orientamenti estetici in relazione ai parchi e alle tenute di campagna, anche a villa Zileri si sentì l’esigenza di adeguare l’assetto del parco secondo il nuovo gusto romantico del giardino all’inglese. Al tempo proprietaria del bene era la contessa Drusilla Dal Verme Loschi, moglie di Luigi ultimo dei Loschi, alla cui morte avvenuta nel 1848 si era estinta la casata. Drusilla era donna intraprendente ed attiva, impegnata in prima persona in iniziative agrarie che coniugavano l’aspetto imprenditoriale a quello della ricerca e dell’innovazione sperimentale. Anche per la condivisione di comuni sentimenti patriottici, era amica ed estimatrice dell’architetto Antonio Caregaro Negrin, al quale si rivolse sia per la riprogettazione della cappella di palazzo di San Francesco, sia per la ridefinizione del parco. L’incarico riguardava non soltanto l’area antistante l’edificio padronale e la zona sul retro del belvedere non ancora realizzato, ma anche l’intera superficie del colle di San Giorgio, fino a quel momento occupata da colture produttive e l’intera campagna della tenuta che faceva capo alla villa. Data la complessità dell’incarico, la vastità dell’area interessata e l’importanza della committenza, si sentì l’esigenza di coinvolgere uno dei massimi esperti in materia del tempo, ovvero l’architetto milanese Balzaretti, del quale il Caregaro Negrin era stato allievo.
Esiste tutt’oggi una mappa realizzata dal Balzaretti nella quale viene delineato un nuovo assetto del parco che andava a stravolgere completamente l’impostazione precedente. Abbandonati i criteri dell’assialità e della simmetria, l’ingresso principale al complesso viene spostato lateralmente verso ovest, in diretto collegamento con un nuovo snodo stradale attorno al quale sarebbe stata riorganizzata tutta la viabilità che si dipartiva dalla villa dando particolare importanza ai collegamenti in direzione della città di Vicenza, fino ad allora trascurati. La percorrenza all’interno del giardino sarebbe proseguita sia in piano sia nel rilievo del colle San Giorgio, in un sinuoso snodarsi di viali e vialetti, linee di definizione di radure a prato, boschetti e gruppi arborei, arricchiti da corsi d’acqua. Il parco si sarebbe dovuto aprire anche verso l’esterno proseguendo idealmente anche nella campagna circostante, dove la presenza di specie arboree monumentali collocate secondo precisi coni prospettici e di visuale, avrebbe dato l’impressione di una continuità sino al fondale ultimo del profilo dei Colli Berici.
Chi si fosse trovato a passeggiare per il giardino sarebbe stato accompagnato in una esperienza e guidato in un susseguirsi di emozioni con scenari perfettamente naturali scoperti ad ogni svolta e con la sorpresa di poter ammirare piante esotiche e rari e studiati accostamenti cromatici.
Il progetto trovò accoglienza positiva, anche se anche in questo caso come avvenne nel secolo precedente, la committenza ridimensionò la grandiosità programmatica della proposta in una attuazione concreta più contenuta spazialmente, che non andò per esempio a coinvolgere nella trasformazione a parco l’interno colle di San Giorgio, interessato comunque dalla piantumazione di essenze non autoctone, così come non venne attuata se non in misura minore e non così incisiva la modifica all’assetto viario. Ad ogni modo, l’aspetto che il parco ha oggi e il suo assetto derivano dall’intervento promosso dalla contessa Drusilla e dal Caregaro Negrin secondo le linee guida del Balzaretti. Frutto degli interessi di botanica e agraria sperimentale della contessa, è invece la serra smontabile, progettata dal Caregaro Negrin per essere realizzata nei pressi dell’ingresso monumentale.
Alla scomparsa di Drusilla Dal Verme Loschi, la proprietà di Biron passò per eredità al conte Camillo Zileri, suo nipote. Il figlio di questi, Alessandro Zileri fu un appassionato viaggiatore che fin dalla giovinezza compì lunghi soggiorni all’estero in paesi esotici, a cominciare dal viaggio che dal 1887 al 1889 lo portò attorno al mondo accanto a Enrico II di Borbone principe di Parma, con un soggiorno di alcuni mesi prima in Indonesia e in Cina e poi in Giappone. In occasione di questo e dei successivi viaggi, il conte Alessandro, venne a contatto diretto con la ricchissima cultura orientale del giardino, già tanto apprezzata ormai da qualche decennio in Europa. Sicuramente ne rimase affascinato e molto probabilmente ritornò in patria ricco di idee e spunti da adottare nella tenuta di Biron e forse anche con essenze particolari e rare da inserire nel parco.
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Valore ambientale naturalistico
Il parco di villa Zileri e più ampiamente l’area di campagna circostante corrispondente grosso modo all’estensione originale della tenuta che faceva capo alla villa, si caratterizzano per un alto valore ambientale naturalistico, ancora più rilevante se si considera la vicinanza con il centro abitato della città di Vicenza, distante poco più di due chilometri.
Si tratta di una realtà, ormai purtroppo rara nell’area della pianura veneta in cui, grazie a fortunate vicende storiche, l’ambiente agreste è rimasto ancora intatto e per larghi tratti privo di elementi di urbanizzazione. Questa porzione di territorio costituisce un prezioso documento storico, conservando pressoché inalterato l’assetto storico di organizzazione agraria, consentendo chiaramente la lettura delle diverse fasi che nelle varie epoche sono andate a delinearne progressivamente l’aspetto sino alla situazione attuale.
Grazie agli interventi progettati e realizzati in modo pianificato e organico, l’area del parco costituisce oggi un unicum di grande interesse sotto l’aspetto botanico. Diversi sono gli esemplari classificati come piante monumentali nazionali o per età o per circonferenza del fusto o per altezza e dimensione della chioma. Tra questi alcuni sono particolarmente degni di nota: un tassodio con un fusto di più di 7 metri alla base e una chioma che raggiunge i 30 metri, un platano con una base di 5,5 metri e una chioma che supera i 40 metri e un viale di carpini bianchi il cui esemplare più significativo ha un fusto di 5 metri alla base. In tutta la campagna un tempo parte della proprietà, il paesaggio è caratterizzato ancora oggi da numerosi esemplari di alberi monumentali, testimoni dell’ottocentesco assetto romantico. Sia il parco in alcune delle sue aree pianeggianti e in quelle boscose in rilievo, sia il territorio circostante soprattutto lungo lo storico sistema agrario di canalizzazione delle acque, presentano una interessante ricchezza di specie floristico erbacee, alcune delle quali particolarmente importanti per rarità o in quanto specie indicatrici dell’assetto naturale passato.
Dal punto di vista faunistico, l’area del parco assieme alla campagna circostante sia nella parte in piano sia nei rilievi adiacenti ricoperti da fitte macchie di bosco è un’oasi in cui trovano l’habitat ideale molte specie selvatiche, tra cui diverse oggi rare da avvistare nelle aree pianeggianti a pochi chilometri dalla città di Vicenza.
Vista la ricchezza d’acqua della zona, qui ad esempio vivono stabilmente trampolieri quali l’airone bianco, l’airone cinerino e la garzetta e lungo i canali nidificano la gallinella d’acqua così come anatre selvatiche di passaggio. Usuale è poter avvistare caprioli che attraversano i campi pianeggianti per spostarsi da un colle all’altro. Nel rilievo di colle San Giorgio vivono anche piccoli mammiferi quali la volpe, il tasso, la faina, il ghiro, assieme ad alcune specie di rapaci notturni quali la civetta e il barbagianni e rapaci diurni come il gheppio. Tutta l’avifauna è molto ricca e comprende anche un gran numero di specie migratorie presenti sia in sosta sia per la nidificazione, segno delle condizioni ambientali particolarmente favorevoli del luogo.
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Le Meraviglie di Villa Zileri – Cappella di San Francesco
Desidero poi, che sia eseguita la pia volontà della Illustrissima Signora Isabetta mia moglie, la quale con ogni spirito procurò e fece edificare una nostra Chiesa attaccata alla Casa Dominicale di Biron intitolata San Francesco, con pensiero d’adottarla, et eleggere un sacerdote […].
Dalle parole di Fabrizio Loschi, scritte l’11 maggio 1617 nel suo testamento, veniamo a sapere che fu grazie all’iniziativa di Elisabetta Poiana che fu costruita la cappella di villa Zileri.
L’edificio che possiamo ammirare oggi si discosta per dimensioni e aspetto decorativo da quello seicentesco, perché nel corso dei secoli il mutare del gusto e delle esigenze hanno portato ad una evoluzione degli spazi e della decorazione.
Possiamo farci un’idea di come doveva essere l’ambiente in cui Elisabetta e Fabrizio entravano a pregare osservando alcuni antichi documenti. Nella mappa delle proprietà dei conti redatta dal perito Giovanni Briati nel 1636, è disegnato un edificio sacro, che appare come una piccola chiesetta collocata sulle pendici di colle San Giorgio alle spalle della casa padronale, quindi nella stessa posizione attuale, ma leggermente staccata dal resto del complesso. La chiesa era accessibile anche dall’esterno, anzi, per alcuni decenni, quello collegato alla strada pubblica fu l’unico ingresso, ed era frequentata dagli abitanti del contado come riferimento per la vita comunitaria religiosa.
Il progetto redatto il secolo successivo, nel 1729, a firma dell’architetto Muttoni per la completa riorganizzazione del complesso richiesta da Nicolò Loschi ci mostra la pianta dell’edificio, che possiamo vedere come pressoché quadrata e in collegamento con un altro vano di dimensioni e proporzioni simili, a sua volta adiacente agli ambienti del piano nobile e alla loggia. Anche l’abside era quadrata, mentre l’aula era illuminata dalla luce proveniente da due finestre aperte sulle pareti rivolte ad Est e Ovest.
La chiesa nella quale entriamo noi oggi ha una pianta diversa, ancora ad aula unica, ma di forma rettangolare caratterizzata dalla presenza di quattro pilastri e da una più profonda abside finestrata. Come si è arrivati a questo aspetto?
Nel corso dell’Ottocento, un’altra figura femminile fu protagonista delle prime importanti modifiche. La contessa Drusilla Dal Verme, moglie di Luigi Loschi, intorno alla metà del secolo diede incarico all’architetto Caregaro Negrin della riorganizzazione degli spazi e del ridisegno della decorazione.
L’iniziativa va vista quale parte di un più ampio riassetto della proprietà del Biron, voluto da questa brillante e colta nobildonna, interessata attivamente alla vita politica del suo tempo, tanto vicina ai moti risorgimentali da essere raffigurata dal Peterlin nel 1876 accanto alle autorità cittadine e ai protagonisti del Risorgimento vicentino nel famoso quadro che celebra la consegna della medaglia d’oro alla città da parte del re Vittorio Emanuele II oggi al Museo del Risorgimento e delle Resistenza di Vicenza, e parimenti all’avanguardia anche per gli studi di agronomia e le applicazioni di pratiche innovative nelle coltivazioni della tenuta della famiglia.
Il Caregaro Negrin accorpò l’ambiente contiguo allo spazio sacro, che raddoppiò così la sua superficie e giunse alle dimensioni attuali. La pianta rimase ad aula unica, ma in corrispondenza del muro abbattuto vennero eretti due pilastri lasciati con finitura in pietra di Vicenza a vista, mentre sulla parete di fondo fu creata una tribuna con soffitto basso ed arcuato, separata dal resto da un inginocchiatoio di legno intagliato, quale spazio privato da cui la famiglia nobile poteva assistere alle funzioni religiose. Il progetto della decorazione, dominato sugli spicchi della volta e sul registro superiore delle pareti da figure di santi, sante ed evangelisti su fondo giallo oro e dalla presenza continua di ricchissimi elementi geometrici policromi su nervature neogotiche e superfici, in contrasto con il registro inferiore caratterizzato dal bianco della pietra dei pilastri e da ampie specchiature con iscrizioni sacre, scaturiva dalla commistione tra il gusto eclettico dell’epoca e da un voluto rimando allo stile cristiano bizantino e all’arte musiva di quel periodo. Alle spalle dell’altare era collocata la grande pala con l’estasi di San Francesco. All’esterno era prevista una bicromia a fasce orizzontali alternate in bianco e rosso mattone, uguale a quella che si vede ancora oggi.
Nella prima metà del Novecento, i proprietari decisero di apporre ulteriori modifiche alla chiesetta del Biron. La contessa Bartolini Carega Zileri ordinò l’ampliamento dell’abside che fu ricoperto da un paramento ligneo decorato con finti intarsi dipinti e volle rinnovare radicalmente anche la veste pittorica, seppur a distanza di pochi decenni dalla conclusione dei precedenti lavori. Una iscrizione riporta il nome di Tito Chini, ricordando la data del 1940.
I vivacissimi motivi del Caregaro Negrin furono nascosti sotto altre trame geometriche altrettanto continue ed estese in tutte le superfici, che lasciavano libere in questa nuova versione cornici e costolature. Vennero mantenute tutte le figure dei santi e sante del soffitto e delle pareti che anzi furono scelte come motivo caratterizzante il soffitto della nuova abside, con immagini entro medaglioni di sante accanto a quella di Cristo. Nel registro inferiore il bianco della pietra di Vicenza fu nascosto sotto uno strato di colore, le specchiature con le iscrizioni furono invece mantenute, ma con variazioni nei testi in esse contenute. A completamento delle pareti c’erano quattro tele raffiguranti scende della Passione, provenienti probabilmente da collocazioni precedenti, forse dalla cappella stessa. La contessa chiese al Tito Chini anche di disegnare per le vetrate delle lunette dell’abside gli stemmi gentilizi della sua casata, Bartolini Carega e di quella del marito, Zileri.
Questo era l’aspetto della chiesa, fino al 2007. In quell’anno, in occasione di alcuni lavori di manutenzione e riparazione delle vetrate dell’aula, grazie all’indagine eseguita attraverso diversi sondaggi alle pareti, è stata riscontrata con sorpresa, al di sotto della decorazione visibile, la presenza di un ulteriore strato pittorico. Ben presto ci si è resi conto che il disegno firmato dal Caregaro Negrin ancora sopravviveva ed era tutto sommato ben conservato.
In accordo con la Soprintendenza, si è deciso allora per un intervento di restauro finalizzato a riportare in luce nell’aula l’aspetto ottocentesco della chiesa, recuperando così un eccezionale esempio di edificio religioso progettato dall’architetto Caregaro Negrin. I lavori, proseguiti per due anni fino al 2009, hanno interessato radicalmente tutto l’ambiente nel suo complesso, con la manutenzione straordinaria del pavimento, dell’arredo ligneo, dei paramenti marmorei dell’altare, il restauro e il consolidamento di tutte le vetrate decorate delle lunette, in particolare le due con gli stemmi araldici allora in precarie condizioni, e infine la pulitura delle quattro tele e della pala d’altare.
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Le Meraviglie di Villa Zileri – La Grotta delle Conchiglie
Alla metà del Seicento il complesso di villa Zileri aveva ancora l’aspetto di un insediamento rurale costituito da un insieme eterogeneo di edifici destinati ad una funzione pratica, allineati attorno ad una grande corte.
Alfonso Loschi, al tempo capofamiglia del casato che aveva in proprietà il bene, sentì l’esigenza di realizzare un nuovo ambiente di rappresentanza accanto agli edifici padronali, destinato ad accogliere e stupire ospiti e visitatori. Si tratta della grotta delle conchiglie, uno spazio voltato in parte scavato nella roccia del colle San Giorgio, in cui tutte le superfici ad eccezione del pavimento, sono completamente decorate.
Alle pareti e al soffitto incrostazioni di conchiglie disegnano fantasiosi motivi geometrici e floreali, delineano cornici e creano figure fantastiche di volti mostruosi, impreziositi da gusci di tartaruga, sfere di cristallo colorate e coralli fossili, intrecciati in un continuum decorativo, a rilievi in intonaco riccamente colorati.
Cornici di conchiglie circondano anche ampie specchiature, nelle quali sono raffigurati con pittura ad affresco episodi della mitologia classica.
L’impressione è di trovarsi in un suggestivo ambiente fantastico, sospesi tra una dimensione acquatica e l’esuberanza rigogliosa e inondante della natura.
Creazioni di questo genere sono frequenti nelle dimore aristocratiche sin dal Cinquecento, secolo in cui la cultura rinascimentale riscoprì quella che era una moda diffusa in epoca classica, quando le ville in campagna dei patrizi romani erano abbellite da ninfei o vere e proprie grotte, naturali o artificiali. Già in epoca classica conchiglie, fossili e giochi d’acqua facevano da sfondo a statue di divinità e ninfe, originariamente venerate come protettrici di fonti e sorgenti. Nel Seicento i suggestivi ambienti delle grotte decorate trovano particolare slancio, incontrando in pieno il gusto barocco della meraviglia, della sorpresa e dell’esuberanza. Si arricchirono sempre più di elementi decorativi, diventando anche pretesto per esporre ed esibire oggetti rari e preziosi del mondo naturale, magari provenienti da lontani paesi esotici. Oltre ad essere luogo di svago del padrone di casa, diventarono anche occasioni di osservazione e studio per appassionati e curiosi, molto vicine al concetto della wunderkammer.
Nel caso di villa Zileri, la grotta delle conchiglie assolve anche ad una funzione di rappresentanza che fino a quel momento mancava, essendo l’ambiente attraverso il quale il casato si metteva in mostra e celebrava se stesso davanti agli ospiti, esaltando la particolare ricchezza della tenuta di Biron.
I temi chiave attraverso i quali interpretare la decorazione e gli affreschi, sono proprio quello della fertilità del suolo con particolare riferimento alla coltivazione della vite, e quello dell’acqua, risorsa ampiamente presente nella campagna circostante la villa, sia con sorgenti ai piedi dei colli sia in pianura, dove grazie a sapienti interventi idraulici sin dal Quattrocento era stata canalizzata ed impiegata come fonte di ricchezza sia in agricoltura sia con la costruzione di mulini. Dall’interno della grotta stessa, si ha accesso ad una naturale cavità della roccia del colle dove si trovava una vera fonte, da cui ancora oggi in alcuni periodi dell’anno sgorga l’acqua. A proposito della coltivazione della vite e la produzione di ottimi vini nella tenuta Loschi di Biron, così scriveva ancora nell’Ottocento lo storico vicentino padre Gaetano Maccà: Monteviale è distante da Vicenza miglia quattro, e da Montecchio Maggiore cinque in circa. Consiste in monte, colli, colline, e piano. […] La sua campagna è assai fertile. I colli, e le colline, ed anche il monte stesso in più luoghi sono vignati, e abbondano d’uve di buonissima qualità, colle quali si fanno vini prelibati» (1814, p. 156).
La descrizione della fertile campagna circostante la villa e il racconto delle sue ricchezze sono narrati anche visivamente attraverso gli affreschi delle pareti e del soffitto, nei quali trovano celebrazione le divinità classiche e le ninfe, presenza tradizionale delle grotte. Due di questi dipinti, che sono tutti opera di una buona mano ma di attribuzione incerta, riferiscono direttamente alla figura del dio Bacco, in uno raffigurato come un giovane vigoroso intento ad ammirare una splendida Arianna che incede danzando, nell’altro invece come un dio piuttosto avanti con gli anni e dall’opulenta figura, trasportato di peso tra festanti amorini che innalzano calici di vino. Una grande statua del dio Bacco campeggia in una nicchia nella parete opposta all’ingresso principale, accogliendo il visitatore e ammiccando verso di lui con un lieve sorriso e con la coppa di vino già alzata per un brindisi. Al di sotto, semisdraiata in un altro incavo più piccolo, giace una figura femminile sognante che quasi sicuramente è identificabile con Arianna abbandonata nell’isola di Nasso. Gli altri due affreschi vedono come protagonisti uno l’incauta Ebe, dea della gioventù, che cade dalle nuvole dove si sta svolgendo il banchetto degli dei dell’Olimpo e precipita a terra verso una rigogliosa campagna, e l’altro la nota figura di Atteone nel momento in cui già è cominciata la sua metamorfosi in cervo, punizione per aver sorpreso Diana e le sue ninfe bagnanti alla fonte. Dei versi poetici dipinti entro specchiature, commentano ogni scena. Alzando gli occhi al soffitto si vedono attraversare il cielo imponenti e trionfanti sui loro carri, da una parte Venere accompagnata da Cupido e dall’altra la dea Cerere con il capo coronato di spighe.
È chiaro come tutti questi motivi intrecciati tra loro, l’acqua, la vite e il vino, la gioventù, concorrano insieme ad esaltare e celebrare i temi della vitalità e della fertilità, che trovavano nella rigogliosa campagna di Biron una concreta e tangibile esemplificazione. Per il conte Alfonso il luogo era occasione, oltre che per mostrare la ricchezza della sua tenuta e delle sua famiglia, anche per un invito ai suoi ospiti a goderne e condividerne gli abbondanti frutti.
L’iscrizione collocata sopra l’ingresso principale: “Alfonso Loschi fece 1665, Drusilla Dal Verme […] restaurò 1865”, ricorda l’anno di costruzione della grotta e il promotore dell’iniziativa e il primo intervento di restauro, avvenuto già nel corso dell’Ottocento, ad opera della contessa Drusilla, che tanto si dedicò alla tenuta di Biron, essendo stata anche committente del Caregaro Negrin sia per il rifacimento della cappella di San Francesco e sia per la riprogettazione del parco secondo il gusto romantico all’inglese. Ai due lati della statua di Bacco, due grandi stemmi nobiliari ricordano le armi dei due casati, Loschi e Dal verme.
Un secondo intervento di restauro, conclusosi nel 2012, grazie ad un pazientissimo lavoro di consolidamento e pulizia delle intere superfici della sala, togliendo la patina opaca che col tempo si era depositata e affrontando i problemi dovuti alla risalita di umidità dal basso, ha permesso di riportare le decorazioni all’originaria brillantezza e vivacità cromatica.
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Le Meraviglie di Villa Zileri – Il Fortepiano
Costruito tra il 1845 e il 1850, il fortepiano di villa Zileri è un ottimo esempio della maestria della famosa e prestigiosa ditta ANTON TOMASCHEK di Vienna.
Alcune informazioni tecniche. La tastiera ha un’estensione di 7 ottave, l’essenza usata per il mobile è noce nazionale di prima scelta, la lunghezza complessiva è di 2,40 metri. Gli acuti e il centro si appoggiano ad un ponticello in acero ed ogni nota ha una triade di corde in acciaio, mentre la parte dei bassi ha un ponticello separato e le note, in acciaio avvolto in ottone, hanno una parte a due corde e una parte, quella finale, ad una corda. Sono presenti un distanziatore in ferro e, nella parte superiore, una coppia di barre portanti sempre in ferro.
La meccanica è di tipo viennese con i martelli ricoperti da tre strati di pelle d’ovino più uno esterno di pelle di daino. I tasti diatonici sono in avorio, i cromatici in ebano.
Lo strumento, infine, ha due pedali: il primo a sinistra aziona una corda che sposta la tastiera verso destra, permettendo al martello di colpire due corde invece di tre, il secondo alza la stecca degli smorzatori, permettendo la libera vibrazione delle corde.
Nel 2008 lo strumento è stato oggetto di un intervento di restauro conservativo, eseguito ad opera del maestro Giuseppe Tolin, profondo conoscitore degli strumenti a tastiera e del fortepiano in particolare, riferimento per la manutenzione e il restauro di numerosi musei e fondazioni. L’intervento è stato preceduto dall’analisi dello stato di conservazione generale, dalla quale è subito risultato che lo strumento si trovava fortunatamente in buone condizioni.
Il fortepiano è stato dunque sottoposto ad una revisione della meccanica e della tastiera, quindi ad una accurata pulizia di pelli e panni ed infine ad un trattamento antitarlo delle parti lignee. E’ stato necessario inoltre provvedere alla sostituzione di una parte dell’ancoraggio dei pedali e di alcune corde, realizzate ancora con i metodi della originaria trazione ottocentesca. Terminata la fase di restauro si è potuto procedere con la registrazione e l’accordatura, eseguita con linea di Diapason di 440. Per portare lo strumento all’idonea linea di sonorità sono stati necessari 6 interventi di accordatura eseguiti nell’arco di 2 mesi.
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VILLA ZILERI
Info, Visite e Contatti
È possibile visitare Villa Zileri Motterle nelle seguenti modalità:
ORARIO INVERNALE dal 01.11.2023 al 31.03.2024
Da lunedì a giovedì, 9:00 – 12:00 | 13:30 – 16:00
Venerdì 10:00 – 12:30 (pomeriggio chiuso)
Sabato e domenica, 10:00 – 16:00
Scopri gli orari di apertura durante il periodo natalizio: Visitare la Villa nel periodo natalizio
ORARIO ESTIVO dal 01.04.2023 al 31.10.2023
Da lunedì a giovedì, 10:00 – 12:00 | 13:30 – 17:00
Venerdì 10:00 – 12:30 (pomeriggio chiuso)
Sabato e domenica, 10:00 – 17:00
Disponibilità di parcheggio per bus e auto.
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Villa Zileri è un edificio storico: l’ingresso è garantito anche per persone diversamente abili, ma per consentire l’accesso a tutti i locali visitabili è presente un percorso appositamente individuato. Per motivi logistici è pertanto necessaria, per le persone diversamente abili, la prenotazione della visita.
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